
La globalizzazione non ha funzionato per l'ultima meraviglia degli armeni. Nel 2001 le telecamere avevano documentato lo scempio dei Buddha a Bamiyan, quando il regime dei talebani in Afghanistan fece a pezzi con la dinamite i celebri colossi ricavati nella pietra, tanto cari a generazioni di viaggiatori intraprendenti, Chatwin compreso. Stavolta, invece, non ci sono immagini con cui scandalizzarsi e pennacchi di fumo davanti a cui piangere lacrime di rabbia. La distruzione di una delle perle archeologiche del Caucaso è avvenuta a obiettivi spenti e, quindi, è destinata a galleggiare nel limbo degli eventi di serie B, quelli che non appassionano quasi nessuno: l'immensa collezione a cielo aperto di antiche e antichissime lapidi che componeva il cimitero di Djulfa non esiste più.

L'ha preso a picconate e disperso un battaglione di soldati azeri, che si sono scatenati sulla collina quasi metafisica di una regione dove, tradizionalmente, i media non arrivano: il Nakhichevan è la desolata enclave dell'Azerbaijan immersa tra l'Armenia e l'Iran, non lontana da un'altra area (questa invece molto chiacchierata) che è il Nagorno-Karabakh, insanguinata da una guerra che ha provocato 30 mila morti e un milione di profughi. Dove c'erano da oltre un millennio le khachkars, innalzate tra l'VIII e il XVI secolo, incise con poetiche immagini di fiori e di animali, dediche malinconiche e tantissime croci cristiane, illuminate dai bagliori quasi rosa, giallognoli, grigi e neri delle pietre levigate dai venti e dalle piogge, resta ora un terreno irregolare e assolutamente brullo. Così - nonostante le imbarazzate smentite del presidente musulmano Aliyev - gli azeri hanno cancellato il più grande cimitero armeno al mondo e, insieme, la testimonianza unica (e mai davvero studiata) di una città (Djulfa) che aveva prosperato per millenni lungo i sentieri della Via della Seta e delle Spezie tra il cuore dell'Asia e le rive del Mediterraneo, finché nel 1604 la comunità fu catturata in massa dallo Scià Abbas e deportata in Iran, a Ishfahan.
Le lapidi, però, sopravvissero miracolosamente, epoca dopo epoca, come "reggimenti schierati in battaglia", secondo le parole dell'avventuriero inglese dell'Ottocento William Ouseley. Nonostante l'abbandono, i furti, i vandalismi e la costruzione nella zona della ferrovia con Erevan, 2 mila pietre, delle originarie 10 mila, si potevano vedere ancora nel 2005. Poi è scattata la distruzione finale. Ora, sei mesi dopo il raid, le conferme definitive sono arrivate dall'"Institute for War and Peace Reporting" di Londra e dal rapporto dell'archeologo Adam T. Smith dell'università di Chicago. Lui non ha ricevuto risposta all'appello lanciato alla comunità internazionale e nemmeno la mobilitazione dell'"Armenian Committee of America" ha avuto successo. L'assenza delle telecamere continua a farsi sentire.
Le lapidi, però, sopravvissero miracolosamente, epoca dopo epoca, come "reggimenti schierati in battaglia", secondo le parole dell'avventuriero inglese dell'Ottocento William Ouseley. Nonostante l'abbandono, i furti, i vandalismi e la costruzione nella zona della ferrovia con Erevan, 2 mila pietre, delle originarie 10 mila, si potevano vedere ancora nel 2005. Poi è scattata la distruzione finale. Ora, sei mesi dopo il raid, le conferme definitive sono arrivate dall'"Institute for War and Peace Reporting" di Londra e dal rapporto dell'archeologo Adam T. Smith dell'università di Chicago. Lui non ha ricevuto risposta all'appello lanciato alla comunità internazionale e nemmeno la mobilitazione dell'"Armenian Committee of America" ha avuto successo. L'assenza delle telecamere continua a farsi sentire.
Gabriele Beccaria
http://brugnols.splinder.com/archive/2006-07?from=90
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