Delicta iuris gentium

Raphael Lemkin

Thursday, June 3, 2010

Le azioni talebanesche degli azerbaigiani

La distruzione delle statue di Buddha dai talebani
La globalizzazione non ha funzionato per l'ultima meraviglia degli armeni. Nel 2001 le telecamere avevano documentato lo scempio dei Buddha a Bamiyan, quando il regime dei talebani in Afghanistan fece a pezzi con la dinamite i celebri colossi ricavati nella pietra, tanto cari a generazioni di viaggiatori intraprendenti, Chatwin compreso. Stavolta, invece, non ci sono immagini con cui scandalizzarsi e pennacchi di fumo davanti a cui piangere lacrime di rabbia. La distruzione di una delle perle archeologiche del Caucaso è avvenuta a obiettivi spenti e, quindi, è destinata a galleggiare nel limbo degli eventi di serie B, quelli che non appassionano quasi nessuno: l'immensa collezione a cielo aperto di antiche e antichissime lapidi che componeva il cimitero di Djulfa non esiste più.
La distruzione del cimitero armeno di Giugha dagli azerbaigiani
L'ha preso a picconate e disperso un battaglione di soldati azeri, che si sono scatenati sulla collina quasi metafisica di una regione dove, tradizionalmente, i media non arrivano: il Nakhichevan è la desolata enclave dell'Azerbaijan immersa tra l'Armenia e l'Iran, non lontana da un'altra area (questa invece molto chiacchierata) che è il Nagorno-Karabakh, insanguinata da una guerra che ha provocato 30 mila morti e un milione di profughi. Dove c'erano da oltre un millennio le khachkars, innalzate tra l'VIII e il XVI secolo, incise con poetiche immagini di fiori e di animali, dediche malinconiche e tantissime croci cristiane, illuminate dai bagliori quasi rosa, giallognoli, grigi e neri delle pietre levigate dai venti e dalle piogge, resta ora un terreno irregolare e assolutamente brullo. Così - nonostante le imbarazzate smentite del presidente musulmano Aliyev - gli azeri hanno cancellato il più grande cimitero armeno al mondo e, insieme, la testimonianza unica (e mai davvero studiata) di una città (Djulfa) che aveva prosperato per millenni lungo i sentieri della Via della Seta e delle Spezie tra il cuore dell'Asia e le rive del Mediterraneo, finché nel 1604 la comunità fu catturata in massa dallo Scià Abbas e deportata in Iran, a Ishfahan.
Le lapidi, però, sopravvissero miracolosamente, epoca dopo epoca, come "reggimenti schierati in battaglia", secondo le parole dell'avventuriero inglese dell'Ottocento William Ouseley. Nonostante l'abbandono, i furti, i vandalismi e la costruzione nella zona della ferrovia con Erevan, 2 mila pietre, delle originarie 10 mila, si potevano vedere ancora nel 2005. Poi è scattata la distruzione finale. Ora, sei mesi dopo il raid, le conferme definitive sono arrivate dall'"Institute for War and Peace Reporting" di Londra e dal rapporto dell'archeologo Adam T. Smith dell'università di Chicago. Lui non ha ricevuto risposta all'appello lanciato alla comunità internazionale e nemmeno la mobilitazione dell'"Armenian Committee of America" ha avuto successo. L'assenza delle telecamere continua a farsi sentire.

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